Polonia, le donne in sciopero contro la legge anti-aborto

#CzarnyProtest: sei milioni di lavoratrici, studentesse e casalinghe in piazza, vestite di nero, per difendere il diritto di abortire.

 

Attualmente, in Polonia, l’aborto è consentito solo in tre casi limite: per uno stupro ed entro la dodicesima settimana, per una malformazione del feto e quando la gravidanza può mettere in pericolo la vita della madre. In tutti gli altri casi, l’interruzione di gravidanza è illegale, grazie a una delle leggi sulla questione più restrittive del mondo. Fatte queste premesse, veniamo alla cronaca: il 23 settembre scorso la camera bassa del parlamento polacco vota a favore di un disegno di legge che – se definitivamente approvato – vieterebbe praticamente ogni forma di aborto, così da avere “la piena protezione del nascituro, la quale è impossibile con le leggi attuali”, come è stato detto alla Conferenza episcopale polacca: 267 deputati su 460 hanno votato a favore della proposta, che ora dovrà affrontare altri due passaggi parlamentari.

Ora le donne polacche e i gruppi di femministe e attiviste di tutto il mondo stanno protestando: il 3 ottobre in sei milioni si sono infatti letteralmente fermate con uno sciopero generale e manifestazioni nelle principali città europee per la #CzarnyProtest, vale a dire la “protesta nera”. Non sono andate a lavorare, non hanno portato i figli a scuola, non sono andate a fare la spesa, non hanno preparato la cena né fatto le solite faccende di casa. E, soprattutto, niente sesso. Sulla pagina Facebook del movimento, molte donne hanno raccontato le loro storie. «Ho 16 anni, un anno e otto mesi fa sono stata violentata. Non potete nemmeno immaginare. All’inizio non riuscivo a guardare il mio corpo, provavo rabbia e vergogna. Ora provate a immaginare una quattordicenne, che è stata stuprata ed è rimasta incinta. Una ragazza non troppo forte potrebbe crollare. È questo che volete? Suicidi di giovani ragazze innocenti, famiglie infelici?». E ancora: «Io sono favorevole all’aborto. Vi porto l’esempio della mia matrigna. Malata di diabete sin dall’età di 15 anni, quando è rimasta incinta ha scoperto di avere una gravidanza ectopica, extrauterina, e non c’era altra scelta se non quella di interromperla. Ma se non fosse andata così? Quella donna, a causa del diabete avanzato, è cieca, e ha avuto altre complicazioni associate al diabete. Ragionevolmente, non è in grado di prendersi cura di un bambino. Non può vedere se ha qualcosa che non va».

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La protesta in Polonia, i precedenti

Nella tradizione dei movimenti femministi ci sono diversi episodi simili nella storia, molto famosi e spesso legati a una sospensione delle “attività femminili” in un particolare ambito, quello sessuale. Nel 2010 a Dado, con uno sciopero del sesso un gruppo di donne nell’isola di Mindanao nelle Filippine riuscì a porre fine alle violenze tra clan rivali e, sempre nel 2010, le colombiane di Barbacoas si “fermarono” per tre mesi e 19 giorni, per convincere le autorità a migliorare le condizioni delle strade tra Barbacoas e le città vicine. La protesta polacca si ispira, però, soprattutto allo sciopero islandese del 1975, che determinò la paralisi del paese: il 90 per cento delle islandesi si rifiutò di lavorare, di cucinare e di prendersi cura dei propri figli per un giorno intero, nel mese di ottobre.

Quella giornata venne decisa per dimostrare l’importanza del contributo delle donne alla società e per chiedere uguaglianza di trattamento e di salario e non si parlò di sciopero, piuttosto di “giorno libero delle donne”. In Polonia migliaia di donne sono scese per le strade di Varsavia, Danzica e di altre città più piccole del paese vestite di nero, in segno di lutto per la possibile perdita dei loro diritti e della loro libertà, e sventolando delle grucce (simbolo dell’aborto clandestino). Accanto a loro hanno partecipato anche di molti uomini.

La legge sull’aborto in Polonia, cosa dice

In Europa, l’interruzione di gravidanza è vietata in Polonia, a Malta e a Città del Vaticano. Ci sono restrizioni severe anche a San Marino, nel Liechtenstein, ad Andorra, in Irlanda e in Irlanda del Nord (dove la legge sull’aborto è diversa rispetto al resto del Regno Unito). Paesi, questi, dove per abortire le donne devono varcare le frontiere e sostenere costi spesso non indifferenti. D’altra parte, la legge che regola l’aborto in Polonia è simile a quella irlandese: la donna può chiedere la procedura solo nel caso in cui le malformazioni del feto siano così gravi da comprometterne la sopravvivenza dopo il parto, se ci sono rischi per la vita della madre, oppure se la gravidanza è a seguito di una violenza sessuale (ovviamente, i medici possono obiettare).

In parole semplici non esiste un diritto assoluto di abortire (ma quello non esiste nemmeno in Italia, seppure qui ci siano naturalmente condizioni meno rigide). Ora, se ci si mette dalla parte dell’embrione e non della donna, le prime due eccezioni al divieto di abortire sono contraddittorie ma comuni in molte normative restrittive. Se un embrione è un individuo e come tale ha diritto alla vita, uno stupro e una malformazione riguardano esclusivamente la donna e non lui. La terza eccezione si presta alla discrezionalità della medicina: cosa significa “pericolo” di vita? Per essere chiari: la vita del nascituro è più o meno importante del rischio di diventare cieca? O del rischio di subire una qualche altra conseguenza irrimediabile? Nella causa Tysiac v. Poland una donna polacca aveva chiesto di poter abortire per non rischiare di diventare cieca, molti medici avevano confermato questo rischio ma nessuno le aveva concesso l’autorizzazione di interrompere la gravidanza; il caso era arrivato fino alla Corte europea dei diritti umani.

Nel frattempo gli aborti illegali aumentano

In base ai dati delle organizzazioni femministe, tra le 100 e le 200 mila donne ricorrono ogni anno all’aborto clandestino o vanno all’estero, in Slovacchia, Germania, Ucraina e Repubblica Ceca, per l’interruzione di gravidanza, a fronte del migliaio di aborti effettuati rispettando i termini di legge. Secondo l’OMS, viene interrotta una gravidanza su quattro: secondo un’inchiesta della rivista scientifica The Lancet, tra il 2010 e il 2014 ben 56 milioni aborti.Verrebbe da pensare che la soluzione potrebbe essere prevenire, e quindi ricorrere alla contraccezione. Ma in Polonia la sola contraccezione disponibile senza ricetta medica è il preservativo. Per la questione polacca si sta mobilitando l’opinione pubblica mondiale, con testimonial di rilievo: in questi giorni a Cracovia era presente l’attrice Juliette Binoche, che ha appoggiato la causa, così come la nota scrittrice polacca Grazyna Plebanek ha ribadito che “le donne non devono essere costrette a partorire bambini concepiti con uno stupro oppure malformati e con nessuna possibilità di sopravvivere”. Il 5 ottobre la questione polacca sul diritto all’aborto sarà discussa al Parlamento Europeo.

Ma chi decide quando si parla di aborto?

Ora a noi non rimane che la fatidica domanda: chi dovrebbe decidere quando si parla di aborto? E, facendo un passo indietro, perché parlare di aborto piuttosto che di interruzione volontaria della gravidanza? Le due espressioni sono diverse nel suono e, soprattutto, nelle emozioni che suscitano. Da un lato i sostenitori del diritto alla vita degli embrioni, dall’altro le donne, magari femministe o magari no, magari atee o religiose a modo loro, che nel millennio della donna nello spazio vorrebbero poter decidere liberamente del proprio corpo e della propria salute. Senza intermediari, senza chiedere il permesso a nessuno, che si tratti di un compagno o un medico, della legge o di un sacerdote. Diritti diversi che confliggono. La libertà di chi vive contro quella di chi potrebbe vivere un giorno.

In Italia, la questione negli ultimi fatti di cronaca si è ribaltata, concentrandosi sul diritto alla fertilità, tanto invocato dalla ministra Lorenzin. A una – piuttosto inadeguata – campagna per spingere le donne a fare figli, le italiane hanno risposto senza mezzi termini: “#siamoinattesa. Di asili nido, welfare, reddito, bonifiche”. In fondo, forse l’unica cosa che conta davvero è poter scegliere. Ognuna per sé. Nella speranza di farlo con meno condizionamenti possibili e con il cuore colmo di consapevolezza.