L'altro lato delle donne, ovvero: come far parlare di sé lasciando senza parole

Sulla Bacchiddu, sulla sua foto, su Woody Allen, su David Foster Wallace e su di me. Come al solito.

Oggi volevo scrivere un post sulla battaglia che si è scatenata sul web dopo il gesto di Paola Bacchiddu, responsabile comunicazione della lista “L’altra europa con Tspiras”, che da Facebook ha invitato al voto attraverso una foto che la ritrae in bikini.

In vista delle elezioni europee la giornalista ha deciso di usare «qualunque mezzo» per far parlare della proposta politica che rappresenta.
Quando il mezzo è il nostro corpo e ne disponiamo in maniera libera e disincantata ecco che si scatena il contraddittorio.

Paola Bacchiddu
Paola Bacchiddu

Diciamoci la verità, si era sentito parlare davvero poco di queste elezioni finché non abbiamo visto anche un altro lato della medaglia.
Il lato b.
Io non so davvero come pormi riguardo a questa faccenda. Da un po’ di tempo a questa parte sono davvero scissa tra una modalità conservatrice, rigorosa e un po’ (diciamolo senza paura) moralista e una tendenza alla demistificazione e alla messa in gioco di un’immagine prima di tutto di me stessa e in secondo luogo del genere a cui appartengo.

In un momento storico in cui i valori più importanti sono messi in crisi, come cambia la percezione che ho di me stessa e del mio corpo?
Sono io per prima il frutto di un processo di elaborazione strana.

Fino all’età di diciotto anni non ho voluto accettare il mio essere donna e per paura, timidezza e insicurezza ho ridotto i rapporti con l’altro sesso a pure formalità.
Mi vestivo con maglioni oversize e i pantaloni di mio padre, leggevo Simone Weil e odiavo chiunque avesse la parvenza di essere minimamente femminile.

Dietro questo odio, questo sentimento che mi attanaglia e che fisicamente somatizzo in un punto preciso della mia pancia ogni talvolta che qualcosa non mi piace, mi sento di poter asserire, a quasi vent’anni di distanza, che si nascondeva nient’altro che invidia.

L’invidia non di mostrare il proprio corpo ma l’invidia nei confronti di chi non pensava ossessivamente che qualsiasi gesto potesse nascondere un messaggio o un’ideologia.

Sono stata per anni schiava di una castrazione ideologica.

Nata da una madre bellissima ma inconsapevole di esserlo, ho sempre associato il piacere a qualcosa di naturale e mai forzato e, non ritenendomi in grado di riproporre questa naturalezza, ho preferito evitare a priori il problema nascondendomi.

Poi sono cresciuta e ho capito che, anche in questo caso come in tutto quello che faccio nella vita, l’unica cosa che conta è avere l’intelligenza necessaria per agire con ironia.

Quello che contesto alla Bacchiddu non è tanto il gesto in sé, che poteva essere anche una bella prova di libertà e di affermazione di una donna di sinistra che non per forza deve essere una donna poco attraente, ma il fatto di non averci messo un minimo di ironia.

Essersi presa così sul serio per questo gesto l’ha sminuito, non lo ha sublimato in un simbolo che è quello che un’immagine mediatica seppur fintamente casalinga deve essere.

Nell’epoca dell’autofiction sui social network e del selfie didascalico della qualsiasi, quello che contesto è l’assoluta mancanza di autoironia da parte di molti.

Qualsiasi cosa facciamo deve raccotare il nostro io ma per essere efficace e puntuale il nostro deve diventare un io artistico e comprensivo di tutti gli io che compongono il nostro pubblico.

Quando abbiamo iniziato a pensare a Malamamma avevamo la netta percezione che sì, dovevamo raccontarci, ma che questo doveva avvenire attraverso un meccanismo di sublimazione del nostro essere mamme in nome di qualcosa in cui sempre più persone potessero riconoscersi.

Pensiamo al grande maestro di tutto questo che è Woody Allen.
È davvero difficile capire il confine che c’è tra la sua vita e la sua maschera eppure è tutto così netto. Il suo lavoro funziona perché le sue nevrosi sono il mezzo per parlare delle nostre nevrosi e il suo discorso non è mai autoreferenziale ma comprende sempre anche noi.

È davvero difficile poter essere ironici e non cadere nell’ autoreferenzialità, non abbassarsi a raccontare un evento ma cercare di inserirlo in un contesto più ampio. Del resto, come diceva Sartre, “Gli uomini vanno visti dall’alto”.

Io faccio sempre un gioco, cerco di dare i soprannomi alle persone cercando di non partire mai dagli evidenti difetti ma cercando di trovare qualcosa che magari si nasconda dietro quella stessa evidenza.

Lo so, non è un gioco intelligente, ma mi aiuta a capire come le cose devono sempre essere raccontate senza mai fermarsi a un primo giudizio.

Tutto questo astratto discorso ha finalmente trovato una rappresentazione concreta. Questa estate mi è capitato tra le mani il libro che mi ha cambiato la vita: “Una cosa divertente che non farò mai più” di David Foster Wallace che, nelle sue poco più di cento pagine, racchiudeva esattamente tutto quello che faticosamente avevo cercato di spiegare a me stessa per anni.
Il punto di vita di Wallace sulla vita e sui personaggi che la popolano è esattamente uguale al mio. Solo che lui, che è un genio assoluto, riesce a descriverlo in modo che sia non solo il mio ma quello di tutti quelli che lo stanno leggendo nello stesso momento, in relazione a un mondo che in realtà è solo il suo perché nessuno di noi ha vissuto le esperienze che lui racconta.

Tornando alle donne, quello che noto e che sempre di più manca un’ironia femminista, un pensiero critico che non metta da parte la leggerezza.
Io voglio come madre, come donna e come artista lavorare per questo e se devo mostrare il culo (oddìo, non l’avevo mai scritto!), voglio farlo con ironia e consapevolezza perché sopravvalutare un gesto porta immediatamente alla distruzione del suo effetto.
Perché, come dice Beyoncè, “non basta avere un bel culo. Bisogna saperlo muovere”.