Una domenica al museo con mia figlia Matilde. Paura, eh?

Nonostante una discreta cultura e un’inesorabile spocchia, ciò che al momento mi da più soddisfazioni è l’aerobica.

Ma non ditelo a mia figlia.

Lasciatele pensare che la sua mamma quando sta zitta pensa alla sonata a Kreutzer e quando parla con le sue amiche disserta su Borges.
Per tener fede alla mia immagine, decido di portala al MACRO.

Il primo problema si presenta quando le dico che M.A C.RO è un acronimo.
Abbiamo scandito il nome MATY con il piglio di due Cheerleader della domenica e, con tanto di di pon-pon immaginario, ne è venuto fuori: MIO ADORATO TOPO YEAH. Mi arresteranno ma credo che qualcosa abbia capito. Come al solito però, mi ha spiazzato quando mi ha chiesto per cosa stesse la O.

In effetti se la R sta per Roma la O per cosa sta? Non può stare con la R pena la decostruzione del concetto di acronimo appena assodato….
E così via con un’ iperbole di incomprensioni a cui mette fine solo la salvifica visita del negozio di animali all’angolo di Viale Regina Margherita.

Una volta arrivate al museo, a malapena riusciamo a sopravvivere all’idea di non arrivare alla cassa.
Nella fase “pago io con i miei soldini “(che diminuiscono notevolmente verso la fine del mese causa mamma aguzzina), vedere la cassa è uno degli obiettivi principali per l’affermazione dell’io.
Entriamo nella sala Enel dove un’enorme costruzione ci attende. “Anche io mamma voglio questi grandissimi Kapla!
Impara l’arte….

I kapla
I kapla

Rimane il fatto che qualsiasi cosa un bambino dica su qualsiasi opera te la puoi rivendere come profonda interpretazione, ma mi rendo conto che probabilmente parlo così perché non è il mio campo, soprattutto in relazione al fatto che se ciò fosse vero la mia laurea in Arti e scienze dello spettacolo la potrebbe avere pure Peppa Pig. Orrore.

Dopo venti minuti passati davanti all”‘istallazione con gli occhi” a cercare di cogliere somiglianze con tutti quelli che conosciamo (tutte le opere d’arte in fondo parlano al condominio nostro) arriviamo davanti all’opera di Kosuth “Una e tre radio”.
Grandissima occasione per una Malamamma pseudo-intellectual di vincere il premio “inventa una grandissima cavolata per attirare l’attenzione di tuo figlio”.
E inizio a raccontare la storia dell’amico di Kosuth che non sapeva cosa fosse una radio e il nostro artista per spigarglielo decise di farlo in due modi: con una foto e con delle parole.
Mentre prendo il volo tronfia dell’attenzione conquistata, arriva, puntuale come le tasse, l’osservazione.

“Ma cos’è una radio?” .

Mi rendo conto che nell’era di I-pod, mp3 e Youtube la radio l’abbiamo dimenticata e l’opera di Kosuth diventa agli occhi di una nata nel 2008 ancor più inspiegabile.
Mannaggia signor Macro, ma non potevi acquistare l’opera “Una e tre sedie”?

Nella stanza attigua però si trova l’opera che più di tutte ci è piaciuta.
Una sbarra che gira con due registratori alle estremità che producono suoni. Fin qui nessuna reazione, ma quando dico a Matilde che per seguire il suono deve girare in tondo si illumina perché le sembra una giostra. E dove c’è giostra c’è felicità per noi.

Arrivati al terzo piano scopriamo di non poterlo visitare perché non adatto ai bambini. Matilde seria seria mi chiede se per caso c’è la foto del “piccione morto”.
E mi ricordo, non so come, di quando andando a scuola alla vista dell’uccello trapassato a miglior vita le dissi, non sapendo come altro introdurre l’argomento, che la morte era una cosa da grandi.

Alla domanda “Ma c’è un bar qui?” capisco che mia figlia è assolutamente in disaccordo con Daverio e soprattutto, molto stanca e dopo un deludente giro nel bookshop totalmente sprovvisto di libri per bambini ci dirigiamo verso l’uscita.

Il pensiero dei panzerotti della BisnonnaIa che ci aspetta ha sopito qualsiasi velleità artistica. Prima però rimaniamo incantate davanti all’opera del signore che scrive storie con le luci di natale e la mamma fiera si giapponesizza e scatta una foto.

Nel viaggio di ritorno sul tram che prendevo una vita fa, il numero 19, probabilmente seduta allo stesso posto di dieci anni fa rifletto su quanto non mi sarei mai aspettata di fare tutto quello che sto facendo e soprattutto che mai avrei potuto pensare di rispondere a una serie di domande specifiche sull’amico di Kosuth. Eh sì, tra tutti è lui il nostro eroe.

Ultima, in ordine cronologico e non di importanza, tra le domande “ma l’amico di Kosuth e “l’amica di Leopardi si conoscevano”?”
La storia di Giacomo, Silvia e la gobba ve la racconto un’altra volta, adesso i panzerotti della BisnonnaIa tengono impegnata la mia bocca e la sete di sapere ha lasciato il posto alla fame dell’ora di pranzo.