La musica #anni90: grunge e britpop, grazie di esistere

Due correnti che hanno lasciato il segno: i gruppi, gli album migliori e la deriva socio-culturale di quegli anni

Ah, bei tempi gli anni ’90. Non solo perché ascoltavo il grunge e il brit-pop nel walkman in gita a scuola ma perché è stato un decennio significativo per la musica, correnti musicali e culturali come il grunge e il brit-pop hanno lasciato il segno, in primis e con un’onda lunga di effetti collaterali ed epigoni di cui sentiamo ancora l’influenza. Il grunge nella sua distorsione ha portato alla ribalta il genere del noise, nato a cavallo tra gli anni ’60-’70 ma relegato ad ambienti musicali di nicchia, con l’avvento del grunge e gruppi come Sonic Youth c’è stata la fusione di entrambi, per non parlare del movimento ambientalista e no global di Seattle, città culla del movimento. Il Brit-pop, non per scelta ma per casualità aveva frontman e musicisti di un certo fascino, dalla metà belloccia dei Blur composta dal cantante Damon Albarn e dal bassista Alex James, al sensuale Brett Anderson (Suede), per non parlare del fascino perverso dei bruttarelli fratelli Gallagher. Potremmo dire che nella sua deriva degenerativa il brit-pop ha favorito la crescita del fenomeno boyband, gruppi di ragazzi molto carini, che cantano, sorridono e suonano con la veridicità dei Bee-hives di Kiss Me Licia, ma altrettanto ha gettato le basi per gruppi come Franz Ferdinand e Coldplay mentre dalla fusione di grunge e britpop mi sento di dire abbiamo avuto fuoriclasse come i Radiohead.

I gruppi grunge e brit-pop

Blur
Blur

L’elenco sarebbe ancora più lungo di quello che scrivo ma per restringere il campo partiamo dai fondamentali. Per il grunge: Nirvana, Pearl Jam, Soundgarden, Stone Temple Pilots, Mudhoney, Hole (si, il gruppo di Courtney Love quando ancora suonava)
Per il Brit-pop, così come negli anni 60 in Inghilterra ci fu il bipolarismo della musica pop-rock con i Beatles-Rolling Stones, a distanza di trent’anni si ripresenta la stessa situazione con Blur-Oasis, i due capisaldi del genere, circondati da gruppi minori ma d’impatto come Suede, Verve, Pulp, Elastica, SuperGrass, Ash, Kula Shaker, Travis.

Gli album imperdibili

Cover di Ten dei Pearl Jam
Cover di Ten dei Pearl Jam

Tutti quelli dei Nirvana, a partire dal ruvido esordio, Bleach (1989), spesso dimenticato a favore del successo mondiale Nevermind, secondo album in studio che li ha portati in vetta alle classifiche – per fortuna nostra – oltreoceano ed al mondo. Ten (1991) dei Pearl Jam, album d’esordio dalla tracklist fenomenale, con pezzi iconici come Even Flow, Alive, Black, Jeremy, Oceans, Porch: assolutamente imperdibile. Superunknown (1994) dei Soundgarden, con il super-singolo Black Hole Sun dall’innovativo video con morphing e altre tecniche digitali. Il piccolo capolavoro di punk-grunge di Live through this (1994) delle Hole.

Cover di Live through this, delle Hole
Cover di Live through this, delle Hole

Anche per il Brit-pop non è semplice restringere il campo, partiamo dai Blur: Leisure (1991) per l’inno generazionale There’s no other way, Parklife (1994), The Great Escape (1995) album della maturità, Blur (1997) per sapere da dove viene il singolo che ballate nei migliori dj set rock alternativi, quando urlate hu-hu! magari senza sapere che quella è Song no. 2. Per gli Oasis l’album di debutto Definitely Maybe (1991) con pezzi strafottenti come Rock’n’roll Star, Supersonic, Live Forever e la consacrazione del secondo (What’s the Story) Morning Glory?(1995) con mattoncini Lego del Brit pop come Roll with It,
Wonderwall, Don’t Look Back in Anger, She’s Electric, Champagne Supernova
. Album meno famosi ma perfetti per capire l’atmosfera di quegli anni anche Different Class (1995) dei Pulp di Jarvis Cocker e l’omonimo debutto degli Suede (1993)

La deriva socio-culturale e di lifestyle

Oasis - foto Facebook ufficiale
Oasis – foto Facebook ufficiale

Se i gruppi del brit-pop si formano nelle città industriali dell’Inghilterra e nell’aggregatore musicale per eccellenza che è Londra, il richiamo alla moda mods è un tratto comune tra i vari esponenti. Polo Ben Sherman e Fred Perry, l’iconico parka verde militare, giuppotti di pelle e cappotti doppio petto ed ai piedi canvas shoes o scarpe da ginnastica – non esistevano ancora il concetto di sneakers – meglio se le Adidas Stan Smith bianche e blu. Seattle è la città del grunge e culla simbolo del movimento “No global”, che molti vedono ufficializzato nel 1999 in occasione della Conferenza Ministeriale della WTO a Seattle negli Stati Uniti, con le manifestazioni di quello che è stato inizialmente chiamato “popolo di Seattle”.

Copertina di No Logo- Naomi Klein
Copertina di No Logo- Naomi Klein

Nel 1999 esce il libro No Logo di Naomi Klein, bibbia del movimento. Anche nel modo di vestire dei gruppi grunge si vedono riflessi gli ideali dei no-logo: capi anonimi, non griffati, t shirt scolorite, camice di flanella, jeans sdruciti perchè l’estetica passa in secondo piano di fronte ad aspetti più interiori raccontati con rabbia nelle canzoni: il male di vivere, la società aliena, la diversità, l’emarginazione, la prospettiva nichilista del futuro. Vi lascio immaginare la deriva modaiola tra i fans ma soprattutto le fans: camice di flanella oversize per le ragazze (fuck the slim fit) anfibi ai piedi (fuck the stiletto), maglioni di lana dei fratelli maggiori, meglio se sdruciti e scoloriti, una scarsa igiene apparente che fa tanto “mi sono appena alzata dopo una serata di concerti, mascara colato, hairstyle finto sbaruffato e l’atteggiamento di chi combatte quotidianamente con l’hangover”.
Eh sì, bei tempi.