Pfas e fertilità femminile, cosa dobbiamo sapere
Pfas e fertilità femminile, cosa dobbiamo sapere: ecco i risultati di una recente ricerca scientifica
Pfas e fertilità femminile, qual è l’impatto di queste sostanza sul corpo della donna? Una recente ricerca scientifica ha cercato di indagare come le sostanze perfluoroalchiliche possano influenzare gli ormoni femminili e di conseguenza la fertilità. I risultati? Decisamente sorprendenti.
Le patologie riproduttive femminili, come lo possono essere delle alterazioni del ciclo mestruale, l’endometriosi, ma anche aborti spontanei, nascite pre termine o nascite di bambini sottopeso, possono essere influenzate da tutte quelle sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) che agiscono sulla funzione ormonale del progesterone, l’ormone femminile.
A dirlo è un gruppo di ricerca dell’Università di Padova coordinato da Carlo Foresta, con Andrea Di Nisio e Manuela Rocca, che ha deciso di indagare proprio l’effetto di queste sostanze sull’azione svolta dagli ormoni femminili.
L’esperimento è stato condotto su delle cellule endometriali in vitro. Le sostanze perfluoroalchiliche (Pfas) sono in grado di interferire in modo decisamente evidente su quella che è la regolazione dei geni espressi a livello dell’endometrio. Sono stati analizzati più di 20mila geni: solitamente il progesterone ne attiva 300, ma se sono presenti queste sostanze ne vengono alterati circa 127. Tra questi anche quei geni coinvolti nella preparazione dell’utero per l’attecchimento dell’embrione. Andando di fatto a compromettere la fertilità di ogni donna.
L’anno scorso un’altra ricerca dello stesso gruppo aveva evidenziato come i Pfas sono in grado di alterare lo sviluppo del sistema uro genitale e la fertilità maschile intereferendo con l’attività del testosterone, l’ormone maschile. Oggi, invece, la scoperta sugli ormoni femminili.
“A questo punto la comprensione di un’interferenza importante dei Pfas sul sistema endocrino-riproduttivo sia maschile che femminile e sullo sviluppo dell’embrione, del feto e dei nati, suggerisce l’urgenza di ricerche che intervengano sui meccanismi di eliminazione di queste sostanze dall’organismo, soprattutto in soggetti che rientrano nelle categorie a rischio“.