Coronavirus, l’ultimo saluto di una mamma ai suoi 4 figli

L'ultimo straziante saluto di una mamma ai suoi 4 figli raccontato da un'infermiera

Tutto quello che ci sta succedendo in queste settimane deve essere per tutti noi spunto di grandi riflessioni. Ogni giorno ci vengono messe sotto gli occhi immagini di grande sofferenza e commozione, ma spesso sono le piccole cose quelle che ci toccano di più. Da Volvera, in provincia di Torino, ci arriva un racconto che dovrebbe tutti farci riflettere. Un’infermiera dell’ospedale San Luigi di Orbassano ha scritto una lunga lettera al sindaco di Volvera, Ivan Marusich.

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Il sindaco a sua volta ha deciso di condividerla sui social, per il grande impatto che lo scritto ha avuto su di lui. Il sindaco Ivan Marusich scrive anche poche parole di suo pugno e ci dice che questa è una testimonianza diretta scritta per noi, per sensibilizzarci e per farci capire cosa stiamo rischiando. Aggiunge Ivan Marusich che tutti dovremmo leggere la lettera, perché: “Chi ha conosciuto da vicino il Covid  oggi è cambiato, queste storie ti invitano a fermarti e a riflettere’”.

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Ecco le parole toccanti dell’infermiera:

Buonasera sig. Sindaco, lavoro in ospedale, le scrivo perché da cittadina volverese vorrei descriverle una giornata tipo. Una come tante, in questo periodo. Ma non vorrei descriverle quello che stanno passando i media: numeri, statistiche, decreti e divieti. Vorrei farlo visto dal lato del paziente Covid positivo e degli operatori. Il Covid è molto più che un virus subdolo. Siamo un paese che sa solo lamentarsi per qualsiasi cosa. Sembra che la quarantena sia un castigo, anziché una protezione per ognuno di noi. Se lo riterrà opportuno, potrà condividerlo lei, per sensibilizzare“.

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Il post prosegue:

“Che bello essere chiamati angeli, ma chissà se poi lo siamo davvero. È un sabato mattina di una settimana di allerta Covid-19. Finalmente un giorno di riposo dopo tanto lavoro. Finalmente puoi dedicarti alla famiglia. Per te la quarantena non esiste, non esiste il divieto ad uscire e non è mai esistito. Tu devi lavorare, sei preziosa dicono. E invece no, niente riposo. Arriva la chiamata. Si deve andare. C’è bisogno di coprire turni. Il lamento è d’obbligo, non vorresti, ma si fa. Mentre ti prepari, rifletti che marzo non è stato affatto clemente: turni di 12 ore, ferie annullate, riposi, ma cosa sono i riposi?. Arrivi al reparto critico, quello dove sono ricoverati i pazienti positivi. Tutto blindato. Ti apre la collega che è li da ieri sera. Stremata, viso segnato dalla mascherina e gli occhiali, prendi consegna e la congedi. Deve riposare”.

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Il racconto non termina qui, la giornata e lunga per queste persone: “Suona un campanello. Ti sporgi alla camera interessata, chiedi il motivo della chiamata, rassicuri che presto entrerai, e vai a vestirti. La vestizione è lunga, ci si deve bardare molto bene e non si possono commettere errori di trascuratezza. Entri dalla paziente, la conosci e la saluti. Ha un casco sulla testa, si chiama C-pap. Serve per respirare meglio, non ha molte speranze e il monitor al quale è collegata ne dà conferma. Ma la paziente è cosciente, lucida e orientata nel tempo e nello spazio, ma soprattutto sa che sta per morire. Lo sa, lo percepisce e lo sente. Parli un po’ con lei”.

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Questa è solo una parte di questa lunghissimo racconto e, leggere queste cose fanno male al cuore, viverle tutti i giorni straziano l’anima:

Non mangia da giorni. Questa mattina chiede la colazione. Ha un diabete non controllato e vuole due fette biscottate con la marmellata. Sarà certo il diabete il suo peggior nemico ora? E riferisci alla collega di passarteli. Quello sguardo implorante ti uccide. Distogli ogni tanto gli occhi da lei per non morire dentro… Mentre le sistemi i cavi dei parametri vitali, lei ti prende la mano…”Amore, sei mamma?”.

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L’infermiera dopo un’attimo di esitazione risponde: “Si, di due ragazzi”.
La paziente impaurita replica: “Allora puoi capire cosa sto provando?”.
Ma l’infermiera vuole farla sfogare, dare voce alla sua richiesta: “Posso provare, ma se vuoi, puoi descrivermelo… ti ascolto”.
La paziente coglie l’occasione per parlare un po’: “Ho quattro figli e sono sempre stati tanto mammoni. Un rapporto bellissimo, anche perché gli ho fatto da madre e da padre, visto che sono rimasta vedova da giovane. Non ho paura di morire, non vorrei solo soffrire. Ma un giorno, uno dei miei figli è venuto a trovarmi e non lo hanno più fatto entrare.. è stato obbligato, non una scelta. Non ho potuto vedere più i nipoti, le nuore nessuno. Io qui, loro a casa.”.
L’infermiera trattiene le lacrime e con forza risponde: “Ma chiamali al telefono e diglielo”.
La donna: “Si, ma non è la stessa cosa. Li chiamo ogni giorno, li sento che stanno soffrendo perché non possono stare con me fino alla fine”.

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Entra il medico, la visita e squilla il telefono, è uno dei figli. La paziente gli dice: “C’è il medico, te lo passo”. Il medico descrive al figlio la situazione. È davvero critica. Alla signora viene detto che dovrà essere intubata presto e che non ha molto da vivere. Il figlio chiede di poterla vedere per un ultimo, breve saluto. Non è possibile. Il Covid non decide su chi posarsi, si insinua su chiunque. Il medico esce dalla stanza e la signora piange disperata.

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E’ ancora al telefono con il figlio, che piange con lei. Lei ha sempre lo sguardo puntato all’infermiera come se le volesse chiederti di fare qualcosa. L’infermiera le chiede di passarle il telefono e, senza portarlo all’orecchio perché non può sentire, dice: “Radunatevi tutti e quattro ma proteggetevi con le mascherine. Fatelo il prima che potete e poi video chiamate questo numero”.

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L’infermiera da il suo numero perché la paziente ha un telefono molto vecchio. Non passa neanche un’ora e la chiamata arriva. Aprendo la videocamera trova tutti e quattro i figli. La paziente non se lo aspettava, parlano per un bel po’. La chiamata dura circa mezz’ora la donna ringrazia è come se si chiudesse un cerchio, lei aveva resistito per loro. Parole strazianti che ci ricordano che noi che stiamo a casa siamo fortunati. Che noi che ci sentiamo reclusi siamo i privilegiati. Quelli che hanno avuto la fortuna di salvarsi lo sanno bene.